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Mastro don Gesualdo (1888)

af Giovanni Verga

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Serier: Ciclo dei Vinti (2)

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499849,487 (3.66)13
This title is part of UC Press's Voices Revived program, which commemorates University of California Press's mission to seek out and cultivate the brightest minds and give them voice, reach, and impact. Drawing on a backlist dating to 1893, Voices Revived makes high-quality, peer-reviewed scholarship accessible once again using print-on-demand technology. This title was originally published in 1979.… (mere)
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“Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco.”

Questo romanzo si inserisce in un contesto che esplora la grande epopea verista, nata nell’ultimo quarto di secolo dell’ottocento, e sviluppatasi quasi prevalentemente nel centro e nel sud della penisola, con in Sicilia Luigi Capuana e Giovanni Verga tra i massimi esponenti. Il “Mastro don Gesualdo” del Verga è appunto uno dei grandi romanzi “veristi” che tra i primi cominciarono a raccontare la vita e le cose per come erano nella realtà, cercando di avvicinarsi il più possibile alla dura condizione umana del vivere quotidiano, soprattutto per quel che riguardava le classi sociali meno agiate; smitizzando molti luoghi comuni trascritti nella prosa dell’epoca e contribuendo così a svecchiare decisamente l’ormai obsoleto romanzo ottocentesco. In questo romanzo, secondo di un ipotetico “ciclo dei vinti” che non vide mai la luce, ma di cui resta traccia nei nomi che si ritrovano nel testo, il Verga costruisce la vita e le gesta di quello che oggi, fuori dai vari gerghi dialettali, si definirebbe un “arricchito”, uno cioè che occupa un posto non suo, non importa se meritato o meno. È sotto questo punto di vista che si svolge la parabola di mastro don Gesualdo, la cui prima condanna è proprio nel nome, con quel “mastro” che rimarrà per tutta la vita ad indicare la sua provenienza: condizione sociale che verrà ribadita fino alla sua morte. È questo dell’estrazione sociale uno dei temi che ricorre in maniera trasversale per tutta la narrazione; Verga vede il contesto sociale nel quale un individuo nasce come una vera maledizione dalla quale non si può né fuggire né salvarsi e a cui nulla servono i vari tentativi di camuffamento per rendere il fardello meno pesante, ed è questa una delle lezioni principali dello scrittore: al di là della discriminazione razziale o economica rimarrà sempre latente negli uomini una discriminazione sociale, continua e strisciante, che accompagna tutt’oggi la nostra quotidianità, che non sarà mai possibile sconfiggere e debellare del tutto. La narrazione verista del Verga è di notevole potenza espressiva, le minuziose descrizioni delle campagne ricordano paesaggi visionari di autori successivi che ben hanno assimilato la sua lezione realista, le introspezioni psicologiche dei personaggi sono rese bene, ma è chiaramente nel personaggio principale che si concentra tutta la forza comunicativa verghiana: nel mastro don Gesualdo che macina tutto e tutti badando solo al sodo, costruendo un impero economico, si direbbe oggi, che possa proiettarlo, attraverso le sue visioni, nell’immortalità temporale, nel suo scrollarsi di dosso ogni tipo di parassiti che non abbiano a capire che tutto quello che ha costruito è frutto del suo duro lavoro e di come sia difficile per lui capire le resistenze nell’essere accettato per quello che è al di fuori del suo mondo. È in quest’ottica che s’inquadra la mitica scena nella quale la rappresentazione tragica del Verga assume in questo romanzo toni molto elevati: Gesualdo Motta, ormai malato e assistito da varie persone, che badano più ai suoi soldi che alla sua salute, capisce che tutto quello che ha costruito non potrà garantire neanche il suo benessere dai malanni che lo affliggono e vorrebbe, a quel punto, che nulla potesse sopravvivergli. È questa l’apoteosi del verismo verghiano; la tragica condizione umana non riesce ad elevarsi oltre quello che appare solo come un chimerico uso della vita intesa come esistenza terrena: in quell’epoca, in quel momento storico, in quel contesto socio-culturale, l’uomo si dimostra ancora troppo “piccolo” per assimilare le grandi verità umanistiche, che dovranno aspettare tempi migliori per essere recepite ed espletate, se mai tempi di questo genere ne verranno, e il Verga stesso, leggendo tra le righe, non è che fosse molto ottimista al riguardo, in ottemperanza al suo profondo verismo…

Qualcuno dei passaggi caratteristici del romanzo

“E se ne andò sotto il gran sole, tirandosi dietro la mula stanca. Pareva di soffocare in quella gola del Petraio. Le rupi brulle sembravano arroventate. Non un filo di ombra, non un filo di verde, colline su colline, accavallate, nude, arsicce, sassose, sparse di olivi rari e magri, di fichidindia polverosi, la pianura sotto Budarturo come una landa bruciata dal sole, i monti foschi nella caligine, in fondo. Dei corvi si levarono gracchiando da una carogna che appestava il fossato; delle ventate di scirocco bruciavano il viso e mozzavano il respiro; una sete da impazzire, il sole che gli picchiava sulla testa come fosse il martellare dei suoi uomini che lavoravano alla strada del Camemi.”

“Nell’altra stanza, appena furono usciti gli invitati, si udì un baccano indiavolato. I vicini, la gente di casa, Brasi Camauro, Giacalone, Nanni l’Orbo, una turba famelica, piombò sui rimasugli del trattamento, disputandosi i dolciumi, strappandoseli di mano, accapigliandosi fra di loro. E compare Santo, col pretesto di difendere la roba, abbrancava quel che poteva, e se lo ficcava da per tutto, in bocca, nelle tasche, dentro la camicia. Nunzio, il ragazzo di Burgio, entrato come un gatto, si era arrampicato sulla tavola, e s’arrabbattava a calci e pugni anche lui, strillando come un ossesso; gli altri monelli carponi sotto. Don Gesualdo, infuriato, voleva correre col bastone a far cessare quella baraonda; ma lo zio marchese lo fermò pel braccio!..”

“Il mondo andava ancora pel suo verso, mentre non c’era più speranza per lui, roso dal baco al pari di una mela fradicia che deve cascare dal ramo, senza forza di muovere un passo sulla sua terra, senza voglia di mandar giù un uovo. Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui. Mastro Nardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paese, più morto che vivo.” ( )
  barocco | Oct 30, 2017 |
“Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco.”

Questo romanzo si inserisce in un contesto che esplora la grande epopea verista, nata nell’ultimo quarto di secolo dell’ottocento, e sviluppatasi quasi prevalentemente nel centro e nel sud della penisola, con in Sicilia Luigi Capuana e Giovanni Verga tra i massimi esponenti. Il “Mastro don Gesualdo” del Verga è appunto uno dei grandi romanzi “veristi” che tra i primi cominciarono a raccontare la vita e le cose per come erano nella realtà, cercando di avvicinarsi il più possibile alla dura condizione umana del vivere quotidiano, soprattutto per quel che riguardava le classi sociali meno agiate; smitizzando molti luoghi comuni trascritti nella prosa dell’epoca e contribuendo così a svecchiare decisamente l’ormai obsoleto romanzo ottocentesco. In questo romanzo, secondo di un ipotetico “ciclo dei vinti” che non vide mai la luce, ma di cui resta traccia nei nomi che si ritrovano nel testo, il Verga costruisce la vita e le gesta di quello che oggi, fuori dai vari gerghi dialettali, si definirebbe un “arricchito”, uno cioè che occupa un posto non suo, non importa se meritato o meno. È sotto questo punto di vista che si svolge la parabola di mastro don Gesualdo, la cui prima condanna è proprio nel nome, con quel “mastro” che rimarrà per tutta la vita ad indicare la sua provenienza: condizione sociale che verrà ribadita fino alla sua morte. È questo dell’estrazione sociale uno dei temi che ricorre in maniera trasversale per tutta la narrazione; Verga vede il contesto sociale nel quale un individuo nasce come una vera maledizione dalla quale non si può né fuggire né salvarsi e a cui nulla servono i vari tentativi di camuffamento per rendere il fardello meno pesante, ed è questa una delle lezioni principali dello scrittore: al di là della discriminazione razziale o economica rimarrà sempre latente negli uomini una discriminazione sociale, continua e strisciante, che accompagna tutt’oggi la nostra quotidianità, che non sarà mai possibile sconfiggere e debellare del tutto. La narrazione verista del Verga è di notevole potenza espressiva, le minuziose descrizioni delle campagne ricordano paesaggi visionari di autori successivi che ben hanno assimilato la sua lezione realista, le introspezioni psicologiche dei personaggi sono rese bene, ma è chiaramente nel personaggio principale che si concentra tutta la forza comunicativa verghiana: nel mastro don Gesualdo che macina tutto e tutti badando solo al sodo, costruendo un impero economico, si direbbe oggi, che possa proiettarlo, attraverso le sue visioni, nell’immortalità temporale, nel suo scrollarsi di dosso ogni tipo di parassiti che non abbiano a capire che tutto quello che ha costruito è frutto del suo duro lavoro e di come sia difficile per lui capire le resistenze nell’essere accettato per quello che è al di fuori del suo mondo. È in quest’ottica che s’inquadra la mitica scena nella quale la rappresentazione tragica del Verga assume in questo romanzo toni molto elevati: Gesualdo Motta, ormai malato e assistito da varie persone, che badano più ai suoi soldi che alla sua salute, capisce che tutto quello che ha costruito non potrà garantire neanche il suo benessere dai malanni che lo affliggono e vorrebbe, a quel punto, che nulla potesse sopravvivergli. È questa l’apoteosi del verismo verghiano; la tragica condizione umana non riesce ad elevarsi oltre quello che appare solo come un chimerico uso della vita intesa come esistenza terrena: in quell’epoca, in quel momento storico, in quel contesto socio-culturale, l’uomo si dimostra ancora troppo “piccolo” per assimilare le grandi verità umanistiche, che dovranno aspettare tempi migliori per essere recepite ed espletate, se mai tempi di questo genere ne verranno, e il Verga stesso, leggendo tra le righe, non è che fosse molto ottimista al riguardo, in ottemperanza al suo profondo verismo… Qualcuno dei passaggi caratteristici del romanzo “E se ne andò sotto il gran sole, tirandosi dietro la mula stanca. Pareva di soffocare in quella gola del Petraio. Le rupi brulle sembravano arroventate. Non un filo di ombra, non un filo di verde, colline su colline, accavallate, nude, arsicce, sassose, sparse di olivi rari e magri, di fichidindia polverosi, la pianura sotto Budarturo come una landa bruciata dal sole, i monti foschi nella caligine, in fondo. Dei corvi si levarono gracchiando da una carogna che appestava il fossato; delle ventate di scirocco bruciavano il viso e mozzavano il respiro; una sete da impazzire, il sole che gli picchiava sulla testa come fosse il martellare dei suoi uomini che lavoravano alla strada del Camemi.” “Nell’altra stanza, appena furono usciti gli invitati, si udì un baccano indiavolato. I vicini, la gente di casa, Brasi Camauro, Giacalone, Nanni l’Orbo, una turba famelica, piombò sui rimasugli del trattamento, disputandosi i dolciumi, strappandoseli di mano, accapigliandosi fra di loro. E compare Santo, col pretesto di difendere la roba, abbrancava quel che poteva, e se lo ficcava da per tutto, in bocca, nelle tasche, dentro la camicia. Nunzio, il ragazzo di Burgio, entrato come un gatto, si era arrampicato sulla tavola, e s’arrabbattava a calci e pugni anche lui, strillando come un ossesso; gli altri monelli carponi sotto. Don Gesualdo, infuriato, voleva correre col bastone a far cessare quella baraonda; ma lo zio marchese lo fermò pel braccio!..” “Il mondo andava ancora pel suo verso, mentre non c’era più speranza per lui, roso dal baco al pari di una mela fradicia che deve cascare dal ramo, senza forza di muovere un passo sulla sua terra, senza voglia di mandar giù un uovo. Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui. Mastro Nardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paese, più morto che vivo.” ( )
  barocco | Oct 24, 2017 |
“Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco.”

Questo romanzo si inserisce in un contesto che esplora la grande epopea verista, nata nell’ultimo quarto di secolo dell’ottocento, e sviluppatasi quasi prevalentemente nel centro e nel sud della penisola, con in Sicilia Luigi Capuana e Giovanni Verga tra i massimi esponenti. Il “Mastro don Gesualdo” del Verga è appunto uno dei grandi romanzi “veristi” che tra i primi cominciarono a raccontare la vita e le cose per come erano nella realtà, cercando di avvicinarsi il più possibile alla dura condizione umana del vivere quotidiano, soprattutto per quel che riguardava le classi sociali meno agiate; smitizzando molti luoghi comuni trascritti nella prosa dell’epoca e contribuendo così a svecchiare decisamente l’ormai obsoleto romanzo ottocentesco. In questo romanzo, secondo di un ipotetico “ciclo dei vinti” che non vide mai la luce, ma di cui resta traccia nei nomi che si ritrovano nel testo, il Verga costruisce la vita e le gesta di quello che oggi, fuori dai vari gerghi dialettali, si definirebbe un “arricchito”, uno cioè che occupa un posto non suo, non importa se meritato o meno. È sotto questo punto di vista che si svolge la parabola di mastro don Gesualdo, la cui prima condanna è proprio nel nome, con quel “mastro” che rimarrà per tutta la vita ad indicare la sua provenienza: condizione sociale che verrà ribadita fino alla sua morte. È questo dell’estrazione sociale uno dei temi che ricorre in maniera trasversale per tutta la narrazione; Verga vede il contesto sociale nel quale un individuo nasce come una vera maledizione dalla quale non si può né fuggire né salvarsi e a cui nulla servono i vari tentativi di camuffamento per rendere il fardello meno pesante, ed è questa una delle lezioni principali dello scrittore: al di là della discriminazione razziale o economica rimarrà sempre latente negli uomini una discriminazione sociale, continua e strisciante, che accompagna tutt’oggi la nostra quotidianità, che non sarà mai possibile sconfiggere e debellare del tutto. La narrazione verista del Verga è di notevole potenza espressiva, le minuziose descrizioni delle campagne ricordano paesaggi visionari di autori successivi che ben hanno assimilato la sua lezione realista, le introspezioni psicologiche dei personaggi sono rese bene, ma è chiaramente nel personaggio principale che si concentra tutta la forza comunicativa verghiana: nel mastro don Gesualdo che macina tutto e tutti badando solo al sodo, costruendo un impero economico, si direbbe oggi, che possa proiettarlo, attraverso le sue visioni, nell’immortalità temporale, nel suo scrollarsi di dosso ogni tipo di parassiti che non abbiano a capire che tutto quello che ha costruito è frutto del suo duro lavoro e di come sia difficile per lui capire le resistenze nell’essere accettato per quello che è al di fuori del suo mondo. È in quest’ottica che s’inquadra la mitica scena nella quale la rappresentazione tragica del Verga assume in questo romanzo toni molto elevati: Gesualdo Motta, ormai malato e assistito da varie persone, che badano più ai suoi soldi che alla sua salute, capisce che tutto quello che ha costruito non potrà garantire neanche il suo benessere dai malanni che lo affliggono e vorrebbe, a quel punto, che nulla potesse sopravvivergli. È questa l’apoteosi del verismo verghiano; la tragica condizione umana non riesce ad elevarsi oltre quello che appare solo come un chimerico uso della vita intesa come esistenza terrena: in quell’epoca, in quel momento storico, in quel contesto socio-culturale, l’uomo si dimostra ancora troppo “piccolo” per assimilare le grandi verità umanistiche, che dovranno aspettare tempi migliori per essere recepite ed espletate, se mai tempi di questo genere ne verranno, e il Verga stesso, leggendo tra le righe, non è che fosse molto ottimista al riguardo, in ottemperanza al suo profondo verismo… Qualcuno dei passaggi caratteristici del romanzo “E se ne andò sotto il gran sole, tirandosi dietro la mula stanca. Pareva di soffocare in quella gola del Petraio. Le rupi brulle sembravano arroventate. Non un filo di ombra, non un filo di verde, colline su colline, accavallate, nude, arsicce, sassose, sparse di olivi rari e magri, di fichidindia polverosi, la pianura sotto Budarturo come una landa bruciata dal sole, i monti foschi nella caligine, in fondo. Dei corvi si levarono gracchiando da una carogna che appestava il fossato; delle ventate di scirocco bruciavano il viso e mozzavano il respiro; una sete da impazzire, il sole che gli picchiava sulla testa come fosse il martellare dei suoi uomini che lavoravano alla strada del Camemi.” “Nell’altra stanza, appena furono usciti gli invitati, si udì un baccano indiavolato. I vicini, la gente di casa, Brasi Camauro, Giacalone, Nanni l’Orbo, una turba famelica, piombò sui rimasugli del trattamento, disputandosi i dolciumi, strappandoseli di mano, accapigliandosi fra di loro. E compare Santo, col pretesto di difendere la roba, abbrancava quel che poteva, e se lo ficcava da per tutto, in bocca, nelle tasche, dentro la camicia. Nunzio, il ragazzo di Burgio, entrato come un gatto, si era arrampicato sulla tavola, e s’arrabbattava a calci e pugni anche lui, strillando come un ossesso; gli altri monelli carponi sotto. Don Gesualdo, infuriato, voleva correre col bastone a far cessare quella baraonda; ma lo zio marchese lo fermò pel braccio!..” “Il mondo andava ancora pel suo verso, mentre non c’era più speranza per lui, roso dal baco al pari di una mela fradicia che deve cascare dal ramo, senza forza di muovere un passo sulla sua terra, senza voglia di mandar giù un uovo. Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui. Mastro Nardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paese, più morto che vivo.” ( )
  barocco | Oct 24, 2017 |
853.8 VER
  ScarpaOderzo | Apr 13, 2020 |
853.8 VER
  ScarpaOderzo | Apr 13, 2020 |
Viser 1-5 af 8 (næste | vis alle)
Realistic novel of Sicilian life by Giovanni Verga, published in Italian in 1889. Mastro-don can be translated "Sir-Workman," a title that embodies the story's central dilemma. The protagonist, Gesualdo Motta, is a peasant who becomes a wealthy landowner through hard work and judicious business practices, but he cannot rise socially despite his marriage to the noble Bianca Trao. The decadence of the unbending Trao family is repeatedly contrasted with the honesty, strength, vitality, ingenuity, and ambition of Gesualdo. He is unable to understand why he becomes alienated from both the gentry and the peasantry; this lack of insight is the source of his tragedy.
tilføjet af aquaticus | RedigerThe Merriam-Webster Encyclopedia of Literature
 

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Forfatter navnRolleHvilken slags forfatterVærk?Status
Verga, Giovanniprimær forfatteralle udgaverbekræftet
Lawrence, D HOversættermedforfatternogle udgaverbekræftet
Simioni , CorradoBidragydermedforfatternogle udgaverbekræftet
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They were ringing sunrise mass at San Giovanni; but the village still slept heavily, because for three days it had been raining, and on the plough-land you sank half up to your knees.
Citater
Sidste ord
Oplysning om flertydighed
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