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De rerum natura

af Tito Lucrezio Caro

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La parola “virus” Tito Lucrezio Caro l’ha usata oltre duemila anni fa nel senso di “secrezione fetida”.
Oggi la riscopriamo pulita e silenziosa, tanto invisibile quanto assassina, in grado di scatenare una pandemia che può destabilizzare il pianeta Terra.

Ne ho scritto in un precedente post con un approccio social linguistico riguardante la sua pronunzia.
Oggi mi occuperò di un libro presente nella mia biblioteca da sempre e che ha una importanza letteraria degna di un aggiornamento.

Si tratta della “natura delle cose” e di chi, tra l’anno 100 e il 50 avanti Cristo, chiamato Tito Lucrezio Caro, ne volle scrivere in versi esametri, spinto dalla sua passione per il mondo fisico e morale della natura umana.

Il suo libro, oltre che essere questo, voleva essere anche uno strumento per istruire e per diffondere la conoscenza. Si sa ben poco sia di lui, sappiamo soltanto che secondo la tradizione impazzì con una pozione d’amore e che forse si tolse la vita. Per carattere possiamo dire che se fu una persona originale, il suo pensiero non lo fu tanto in quanto trasse ispirazione dal pensiero greco nelle opere di Epicuro, Democrito e Leucippo.

Lucrezio fa suo il loro materialismo atomistico, svuotando il mondo di ogni presenza divina. Le sue divinità sono sterili ed inattive presenze negli interspazi celesti con nessun interesse per gli uomini. In effetti lui è chiaramente un ateo. Gli uomini e le loro cose si muovono soltanto con e a causa degli atomi, in un freddo determinismo.

L’anima finisce con il corpo, per questa ragione egli invita gli uomini a vivere senza alcuna superstizione. Il poema è un messaggio di propaganda razionalistica quanto mai moderna. Il libero arbitrio concesso agli uomini viene aiutato dagli “atomi” in un determinismo generale. La sua teoria “atomica” ha ben poca somiglianza con la moderna teoria atomica di cui non anticipa nulla. Lucrezio però anticipa molte cose della moderna antropologia, sociologia e evoluzionismo. Il suo poema è difficile da capire in quanto non è possibile tradurre in versi la fisica e la cosmologia, ma ci sono brani di grande bellezza come questo che vi propongo:

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.
Suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,
despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.
O miseras hominum mentes, o pectora caeca!
Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?
— —
È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo. È dolce anche vedere i grandi scontri di guerra schierati nella pianura senza che tu prenda parte al pericolo. Ma nulla è più dolce che tenere saldamente gli alti spazi sereni, fortificati dalla dottrina dei sapienti, da dove tu puoi stare a guardare dall’alto gli altri, e osservarli errare qua e là e cercare smarriti la via della vita, gareggiare in qualità intellettuali, contendere in nobiltà di sangue e sfarzosi di notte e giorno, con instancabile attività, per arrivare ad una grande ricchezza e impadronirsi del potere. O misere menti degli uomini, o ciechi animi! In quali tenebre di vita e in quanti pericoli si trascorre questo poco di vita, qualunque essa sia! E come non vedere che la natura null’altro pretende per sé, se non che in quanto al corpo il dolore sia lontano, e in quanto all’anima goda di piacevoli sensazioni, priva di affanni e di timori?

Lucrezio: Proemio del libro II del “De rerum natura” ( VV.1–61) (Analisi del testo di Marino Faggella)

Lucrezio riesce ad avere sempre una corretta visione d’insieme della realtà e tradurla in immagini indimenticabili. Quando Virgilio scrisse “Felice l’uomo che conosce la ragione delle cose” forse si riferiva a Lucrezio che fece di questa ricerca la ragione del suo poema, liberandosi di miti e superstizioni.

In questo consiste la sua modernità nonostante la critica che ne fece uno scienziato moderno che corrisponde al nome di Albert Einstein in suo libro pubblicato nel 1927. Egli non solo esprime la sua ammirazione, ma fa al poeta filosofo anche una critica che Luciano Canfora ha definito “intelligentissima, rispettosa e severa al tempo stesso”. Einstein scrive esattamente:

“L’obiettivo principale che Lucrezio si propone col suo poema è di liberare l’uomo dalla paura che suscitano religione e superstizione e che ci rende schiavi; una paura alimentata e sfruttata dai sacerdoti per i propri interessi”.

Un laicismo profondo che non contraddice, anzi rinsalda, la contemplazione dei “nessi casuali”: “Dio non gioca a dadi”, nella celebre battuta dello scienziato. Va riconosciuta a Lucrezio, nonostante tutti i suoi errori di dettaglio, il fatto che con i suoi versi in esametri riesce a costruire un universo unitario che viene fuori dal nulla ma è fatto di spazio e materia: “le cose della natura”, appunto, incluso i “virus”. ( )
  AntonioGallo | Sep 24, 2020 |
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