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Pilgrim among the shadows

af Boris Pahor

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Boris Pahor spent the last fourteen months of World War II as a prisoner and medic in the Nazi camps at Belsen, Harzungen, Dachau, and Natzweiler. His fellow prisoners comprised a veritable microcosm of Europe Italians, French, Russians, Dutch, Poles, Germans. Twenty years later, when he visits a camp in the Vosges Mountains that has been preserved as a historical monument, images of his experiences come back to him: corpses being carried to the ovens; emaciated prisoners in wooden clogs and ragged, zebra-striped uniforms, struggling up the steps of a quarry or standing at roll call in the cold rain; the infirmary, reeking of dysentery and death. Necropolis is Pahor s stirring account of his attempts to provide medical aid to prisoners in the face of the utter brutality of the camps and of his coming to terms with the ineradicable guilt he feels, having survived when millions did not.… (mere)
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Uma obra-prima da literatura do Holocausto Quando o fluxo da memória começa a correr, e as lembranças voltam à tona com sua carga de dor e comoção. Campo de concentração de Natzweiler-Struthof, nos Vosges, Alemanha. O homem que, numa tarde de verão, chega com um grupo de turistas não é um visitante qualquer, mas Boris Pahor, um ex-prisioneiro que, depois de muitos anos, volta ao lugar onde esteve preso. O autobiográfico Necrópole traz as lembranças que surgem diante das barracas e do arame farpado transformados em museu e centro de visitação. Escrito numa linguagem crua que não faz concessões à autocomiseração, o livro marca por seu texto forte e, muitas vezes, violento, que descreve, em mínimos detalhes, atrocidades como a tortura de presos e a dissecação de cadáveres. Uma das características de Pahor é utilizar-se de parágrafos longos, que deixam o leitor sem ar, angustiado, como o próprio autor se sentia nos anos em que viveu no campo. Pahor, durante a Segunda Guerra Mundial, colaborou com a resistência antifascista eslovena e foi deportado para os campos de concentração nazistas, experiência que o marcou profundamente e da qual se encontram resquícios na maior parte da sua extremamente rica produção literária. Mais do que um escritor, uma lenda viva.
  bibliotecapresmil | Sep 8, 2022 |
Necropoli è un libro di memorie scritto nel 1967 da Boris Pahor, scrittore triestino di lingua slovena, che narra l'esperienza vissuta dall'autore nel campo di concentramento nazista di Natzweiler-Struthof. (fonte: Google Books)
  MemorialeSardoShoah | May 17, 2020 |
Pahor, Boris (1966). Necropoli. Roma: Fazi. 2008.

Ho letto, come quasi tutti i miei coetanei (almeno spero), molti libri sui campi nazisti: a partire da Primo Levi, naturalmente. Questo di Pahor è molto bello, anche sotto il profilo letterario, se è lecito applicare una categoria di questo genere a un libro dal contenuto tanto orribile, raggelante. Letteralmente. Ma sono in buona compagnia: la pensa così anche Claudio Magris, anche chi ha proposto più volte l’autore per il Nobel della letteratura, anche gli ascoltatori di Fahrenheit che proprio ieri l’hanno votato libro dell’anno.

Eppure questo libro ha dovuto attendere quasi 40 anni per essere tradotto in italiano (Pahor, nato a Trieste, è di lingua e cultura slovena) in un’edizione locale e qualche anno ancora per essere ripreso e diffuso da un editore nazionale. Perché? Presto detto. Gli italiani, noi italiani, siamo responsabili di 25 anni di repressione anti-slovena a Trieste e in Venezia Giulia. Di italianizzazione forzata. Ancora oggi non riconosciamo agli sloveni nella sostanza la dignità linguistica e culturale che riconosciamo ad altre minoranze. Pahor, e tanti come lui, sono finiti in campo di concentramento come diretta conseguenza della nostra politica anti-slovena. I più non sono tornati.

Certo, questo non giustifica le fòibe. Nel mio caso non aiuta nemmeno a capirle, perché penso che orrore non scaccia orrore. Ma spiega, almeno, perché mi ripugna che a Trieste ci sia chi (e sono molti) chiama sciavi (schiavi) gli slavi, senza sapere o senza ricordare che è un epiteto che gronda sangue, e sangue innocente. E spiega anche il mio fastidio per la retorica nazionale che riempie le pagine dei giornali (non soltanto di quelli fascisti, anche di quelli indipendenti) quando cercano di “bilanciare” l’orrore e la scientifico-burocratica distruzione della vita nei campi di concentramento e annientamento (Vernichtung, parola tedesca, quasi hegeliana, che mi fa sempre venire la pelle d’oca), contrapponendo alla giornata della memoria del 27 gennaio una giornata del ricordo (delle fòibe) celebrata il 10 febbraio.

Ma sentiamo la pacata voce di Boris Pahor, prima dal libro e poi in 2 interviste:

Già in gioventù ogni illusione ci era stata spaz­zata via dalla coscienza a colpi di manganello e ci erava­mo gradualmente abituati all’attesa di un male sempre più radicale, più apocalittico. Al bambino a cui era capi­tato in sorte di partecipare all’angoscia della propria co­munità che veniva rinnegata e che assisteva passivamente alle fiamme che nel 1920 distruggevano il suo teatro nel centro di Trieste, a quel bambino era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro. Il cielo color sangue sopra il porto, i fascisti che, dopo aver cosparso di benzina quelle mura aristocratiche, danzavano come selvaggi attorno al grande rogo: tutto ciò si era impresso nel suo animo infantile, traumatlzzandolo. E quello era stato soltanto l’inizio, perché in seguito il ragazzo si ri­trovò a essere considerato colpevole, senza sapere contro chi o che cosa avesse peccato. Non poteva capire che lo si condannasse per l’uso della lingua attraverso cui aveva imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo. Tutto divenne ancora più mostruoso quando a decine di migliaia di persone furono cambiati il cogno­me e il nome, e non soltanto ai vivi ma anche agli abi­tanti dei cimiteri. Ed ecco che quella soppressione, du­rata un quarto di secolo, raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo l’individuo a un numero. [pp. 42-43]
  Boris.Limpopo | May 3, 2019 |
"Chi nel momento dell'estremo pericolo per l'Europa aveva giurato di disinfestarla a fondo si è poi assservito ad altri interessi meno nobili, per raggiungere i quali l'esigenza di una vera denazificazione diventava un ostacolo. Così l'Europa è uscita dal dopoguerra, che avrebbe potuto essere il periodo in cui compiere la propria purificazione, come un'invalida a cui qualcuno abbia applicato occhi di vetro perché non spaventi i bravi cittadini con le sue orbite vuote e tuttavia burlandosi di lei ed offendendola con impudenza"
Boris Pahor scriveva questo nel 1966: è agghiacciante constatare come ciò calza ancora a pennello per descrivere la rimozione del concetto di coscienza collettiva e civile, per non parlare dell'infamia del negazionismo.nel complesso però non è un libro che mi abbia veramente colpita: troppo "quieto"; non che io vada cercando la retorica nelle memorie dei sopravvissuti, però...forse troppa "pietas" che allora non fa scattare la vera compassione; oltretutto non aiuta il lasciar fluire i ricordi senza un preciso orientamento cronologico per noi che leggiamo: l'occasione per raccontare e raccontarsi Pahor la coglie nel corso di una sua seconda visita in uno dei campi di concentramento in cui è stato internato e le vicende le narra prendendo spunto da ciò che mano a mano vede nel corso della visita, con grandi fughe in avanti e indietro nel tempo che per me è stato difficile seguire
  ShanaPat | Oct 10, 2017 |
Una storia da leggere per conoscere e non dimenticare. ( )
  cloentrelibros | Aug 23, 2016 |
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Boris Pahor spent the last fourteen months of World War II as a prisoner and medic in the Nazi camps at Belsen, Harzungen, Dachau, and Natzweiler. His fellow prisoners comprised a veritable microcosm of Europe Italians, French, Russians, Dutch, Poles, Germans. Twenty years later, when he visits a camp in the Vosges Mountains that has been preserved as a historical monument, images of his experiences come back to him: corpses being carried to the ovens; emaciated prisoners in wooden clogs and ragged, zebra-striped uniforms, struggling up the steps of a quarry or standing at roll call in the cold rain; the infirmary, reeking of dysentery and death. Necropolis is Pahor s stirring account of his attempts to provide medical aid to prisoners in the face of the utter brutality of the camps and of his coming to terms with the ineradicable guilt he feels, having survived when millions did not.

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