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Cold and poverty define Hanna Renstrom's childhood in remote northern Sweden, and in 1905, at nineteen, she boards a ship for Australia in hope of a better life. But none of her hopes--or fears--prepares her for the life she will lead. After two brief marriages, she finds herself a widow twice over, and the owner of a bordello in Portuguese East Africa, a world where colonialism and white supremacy rule, where she is isolated within society by her profession and her sex, and, among the bordello's black prostitutes, by her color. As Hanna's story unfurls over the next several years, we watch her in this "treacherous paradise," as she wrestles with a constant, wrenching loneliness and with the racism she's meant to unthinkingly adopt. And as her life becomes increasingly intertwined with the prostitutes, she moves inexorably toward the moment when she will make a decision that defies every expectation society has of her, and, more important, those she has of herself.… (mere)
Si fatica sempre un poco ad immaginare, ma soprattutto a leggere Henning Mankell quando trama e scrittura lo separano in modo netto dalla creatura letteraria che lo ha reso famoso: il commissario Kurt Wallander. Ancor più quando quei personaggi, lo stile e l’ordito del racconto si trasformano, sull’onda del successo, in interpreti televisivi replicati a più puntate in serie di culto. La separazione è traumatica, lo sdoganamento dal ruolo di divinità del giallo nordico pesa a Mankell e non poco. D’altro canto accade anche ad altri: pensiamo al nostrano Andrea Camilleri con Montalbano o al greco Petros Markarīs ed al suo commissario Kostas Charitos.
Una premessa importante, anche per parlare di questo suo “Ricordi di un angelo sporco”, edito in Italia da Marsilio. Un romanzo di “peso” in termini di foliazione, in cui l’inizio ci trae sin dalle prime righe in inganno, lasciandoci pensare, nel freddo estremo di un paesaggio scandinavo, tra neve, slitte e cieli cupi come la fuliggine, che l’autore giochi in casa. Ma è solo un fremito, un battito d’ali, perché tutto si svolge nella luce calda e abbagliante, umida ed odorosa dell’Africa. Certamente a latitudini estreme, ma sul lato opposto del globo terracqueo, in Mozambico, Africa Orientale Portoghese all’epoca dei fatti raccontati. Una regione molto cara a Mankell che, scomparso nel 2015 all’età di 67 anni con al suo attivo qualcosa come 50 milioni di copie vendute nel mondo, si trasferiva a Maputo per metà dell’anno, occupandosi di attività culturali, arricchendo il cartellone delle rappresentazioni al Teatro Avenida, godendo di quei paesaggio e di quel clima, non sempre clemente, che tanto peso ha in questo suo racconto ambientato tra la fine dell’Ottocento e l’alba di un nuovo secolo.
La protagonista è una giovane ragazza svedese, Hanna, costretta, suo malgrado, a lasciare affetti e famiglia, una sorta di selezione naturale per sopravvivere a far sopravvivere una madre troppo povera per poter mantenere tre figli. Il destino la porterà a solcare l’oceano e ad approdare, dopo un susseguirsi di sventure che sembrano essersi incollate al suo pallore, a trasformarsi da fanciulla ingenua e sognatrice a tenutaria del bordello di prostitute nere più grande e florido della colonia portoghese di Lourenço Marques (l’attuale Maputo), a passare dalla povertà senza speranze alla ricchezza spropositata, dall’accettazione di uno stereotipato atteggiamento colonialista, sprezzante ed immorale, ad una dolorosa presa di coscienza di quella disumana relazione tra esseri umani che chiamiamo razzismo, sino ad una trasformazione, alla lotta contro corrente, in un mare che alterna bonaccia e tempesta dove su nessuna riva c’è però un approdo sicuro, una mano tesa.
Quella di Hanna è una vera metamorfosi dell’anima ed è forse il sentimento che ha provato Mankell per quella terra color ebano. Amava dire che “tutti abbiamo antenati neri”, che stare in Africa lo avvicinava al senso della condizione umana. Ed è forse legato a questo pensiero che, nel suo percorso di presa di coscienza, nel suo avvicinarsi all’idea di una società dove i colori non contano, sino al muro contro muro con i coloni bianchi, Hanna muta anche il nome. Diventa Ana Branca, poi Ana Negra poi ancora Hanna.
C’è quindi il racconto e la condanna del colonialismo più gretto, ben incarnato dalla disumanizzazione delle genti di colore declassate al rango di animali domestici, così come dalla folle umanizzazione di uno scimpanzé cui è imposto, suo malgrado, il ruolo di improbabile dama di compagnia. Ed è forse questo il motivo principale che stimola la lettura, offrendoci di tanto in tanto una scarica elettrica che accompagna l’impulso di ribellione innanzi a ciò che ci è raccontato e che ci infastidisce, tanto urta i valori di una società libera in cui tutti sono uguali.
“Ricordi di un angelo sporco” è un libro sul senso della condizione umana. Trova ispirazione da alcuni vecchi documenti riemersi dall’archivio coloniale di Maputo. Tracce contabili delle ingenti imposte pagate da una donna svedese, tenutaria di uno dei grandi bordelli in cui quegli stessi bianchi colonialisti artefici della segregazione razziale, amavano passare le serate con prostitute, guarda caso, di colore. Ma la realtà che offre ispirazione all’autore evapora però in una scrittura sognante, quasi onirica che, se non fosse precisato il luogo che fa da sfondo alle vicende raccontate, mi avrebbe forse lasciato immaginare una di quelle saghe dal sapore sudamericano e dal tratto fatalista oppure gli scenari a campo aperto che Victor Fleming porta sul grande schermo con "Gone with the Wind" o, a volerla proprio tirare per le lunghe, qualche bel romanzo da epopea familiare stile Wilbur Smith. Una sensazione di cui il lettore più navigato trova convincimento anche nel fatto che nelle sue quasi quattrocento pagine, il racconto che ci è offerto pare quello di una vita intera, tante sono le vicende che vi si susseguono e vi si addensano, ma gli ottant’anni che sentiamo di aver vissuto accanto ad Hanna sono, sul calendario gregoriano, appena un paio. Una goccia d’acqua nell’oceano, sempre presente nel racconto.
Il finale è francamente un po' troppo da fiaba disneyana e si perde in un'aura di suggestioni popolari e spiritismo tribali, dove le scelte dure e sofferte di Hanna, la sua passionalità, la consapevolezza, l’amore incondizionato ed improbabile, scompaiono in un sol colpo, spazzati via da una bacchetta magica invisibile che ci lascia soli, in mezzo al mare. ( )
Every time! Reviews: "unlikable flat tone." Me: "Ooh I like this writing."
Anyway this was interesting, and not quite what I expected. There are some moments of difficult shifts in perspective and understanding that make it all worthwhile. ( )
A comienzos de 1900, sucedió un hecho extraño en el continente africano. Aparece una mujer sueca, como salida de la nada, y queda constancia de ella como dueña del burdel más grande de la capital de la colonia portuguesa de Mozambique.
An impoverished Swedish girl through various turns of events finds herself in west Africa recovering in a brothel she eventually owns. I struggled to connect with the main character. And the story felt too contrived. ( )
It seemed to her that the sea was like a rocking chair in which whe was swaying gently back and forth as the night passed, and another life slowly became possible
Cold and poverty define Hanna Renstrom's childhood in remote northern Sweden, and in 1905, at nineteen, she boards a ship for Australia in hope of a better life. But none of her hopes--or fears--prepares her for the life she will lead. After two brief marriages, she finds herself a widow twice over, and the owner of a bordello in Portuguese East Africa, a world where colonialism and white supremacy rule, where she is isolated within society by her profession and her sex, and, among the bordello's black prostitutes, by her color. As Hanna's story unfurls over the next several years, we watch her in this "treacherous paradise," as she wrestles with a constant, wrenching loneliness and with the racism she's meant to unthinkingly adopt. And as her life becomes increasingly intertwined with the prostitutes, she moves inexorably toward the moment when she will make a decision that defies every expectation society has of her, and, more important, those she has of herself.
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Una premessa importante, anche per parlare di questo suo “Ricordi di un angelo sporco”, edito in Italia da Marsilio. Un romanzo di “peso” in termini di foliazione, in cui l’inizio ci trae sin dalle prime righe in inganno, lasciandoci pensare, nel freddo estremo di un paesaggio scandinavo, tra neve, slitte e cieli cupi come la fuliggine, che l’autore giochi in casa. Ma è solo un fremito, un battito d’ali, perché tutto si svolge nella luce calda e abbagliante, umida ed odorosa dell’Africa. Certamente a latitudini estreme, ma sul lato opposto del globo terracqueo, in Mozambico, Africa Orientale Portoghese all’epoca dei fatti raccontati. Una regione molto cara a Mankell che, scomparso nel 2015 all’età di 67 anni con al suo attivo qualcosa come 50 milioni di copie vendute nel mondo, si trasferiva a Maputo per metà dell’anno, occupandosi di attività culturali, arricchendo il cartellone delle rappresentazioni al Teatro Avenida, godendo di quei paesaggio e di quel clima, non sempre clemente, che tanto peso ha in questo suo racconto ambientato tra la fine dell’Ottocento e l’alba di un nuovo secolo.
La protagonista è una giovane ragazza svedese, Hanna, costretta, suo malgrado, a lasciare affetti e famiglia, una sorta di selezione naturale per sopravvivere a far sopravvivere una madre troppo povera per poter mantenere tre figli. Il destino la porterà a solcare l’oceano e ad approdare, dopo un susseguirsi di sventure che sembrano essersi incollate al suo pallore, a trasformarsi da fanciulla ingenua e sognatrice a tenutaria del bordello di prostitute nere più grande e florido della colonia portoghese di Lourenço Marques (l’attuale Maputo), a passare dalla povertà senza speranze alla ricchezza spropositata, dall’accettazione di uno stereotipato atteggiamento colonialista, sprezzante ed immorale, ad una dolorosa presa di coscienza di quella disumana relazione tra esseri umani che chiamiamo razzismo, sino ad una trasformazione, alla lotta contro corrente, in un mare che alterna bonaccia e tempesta dove su nessuna riva c’è però un approdo sicuro, una mano tesa.
Quella di Hanna è una vera metamorfosi dell’anima ed è forse il sentimento che ha provato Mankell per quella terra color ebano. Amava dire che “tutti abbiamo antenati neri”, che stare in Africa lo avvicinava al senso della condizione umana. Ed è forse legato a questo pensiero che, nel suo percorso di presa di coscienza, nel suo avvicinarsi all’idea di una società dove i colori non contano, sino al muro contro muro con i coloni bianchi, Hanna muta anche il nome. Diventa Ana Branca, poi Ana Negra poi ancora Hanna.
C’è quindi il racconto e la condanna del colonialismo più gretto, ben incarnato dalla disumanizzazione delle genti di colore declassate al rango di animali domestici, così come dalla folle umanizzazione di uno scimpanzé cui è imposto, suo malgrado, il ruolo di improbabile dama di compagnia. Ed è forse questo il motivo principale che stimola la lettura, offrendoci di tanto in tanto una scarica elettrica che accompagna l’impulso di ribellione innanzi a ciò che ci è raccontato e che ci infastidisce, tanto urta i valori di una società libera in cui tutti sono uguali.
“Ricordi di un angelo sporco” è un libro sul senso della condizione umana. Trova ispirazione da alcuni vecchi documenti riemersi dall’archivio coloniale di Maputo. Tracce contabili delle ingenti imposte pagate da una donna svedese, tenutaria di uno dei grandi bordelli in cui quegli stessi bianchi colonialisti artefici della segregazione razziale, amavano passare le serate con prostitute, guarda caso, di colore. Ma la realtà che offre ispirazione all’autore evapora però in una scrittura sognante, quasi onirica che, se non fosse precisato il luogo che fa da sfondo alle vicende raccontate, mi avrebbe forse lasciato immaginare una di quelle saghe dal sapore sudamericano e dal tratto fatalista oppure gli scenari a campo aperto che Victor Fleming porta sul grande schermo con "Gone with the Wind" o, a volerla proprio tirare per le lunghe, qualche bel romanzo da epopea familiare stile Wilbur Smith. Una sensazione di cui il lettore più navigato trova convincimento anche nel fatto che nelle sue quasi quattrocento pagine, il racconto che ci è offerto pare quello di una vita intera, tante sono le vicende che vi si susseguono e vi si addensano, ma gli ottant’anni che sentiamo di aver vissuto accanto ad Hanna sono, sul calendario gregoriano, appena un paio. Una goccia d’acqua nell’oceano, sempre presente nel racconto.
Il finale è francamente un po' troppo da fiaba disneyana e si perde in un'aura di suggestioni popolari e spiritismo tribali, dove le scelte dure e sofferte di Hanna, la sua passionalità, la consapevolezza, l’amore incondizionato ed improbabile, scompaiono in un sol colpo, spazzati via da una bacchetta magica invisibile che ci lascia soli, in mezzo al mare. ( )