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La chiave a stella e quattro racconti

af Primo Levi

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“È sui trentacinque anni, alto, secco, quasi calvo, abbronzato, sempre ben rasato. Ha una faccia seria, poco mobile e poco espressiva. Non è un gran raccontatore: è anzi piuttosto monotono, e tende alla diminuzione e all’ellissi come se temesse di apparire esagerato”. Questo, secondo Primo Levi, narratore o egli stesso interprete a seconda di come lo si legge lo si voglia interpretare, è il sintetico ritratto di Libertino Faussone, detto Tino, torinese di quella che fu polo attrattivo dell’industrializzazione italiana negli anni del boom, esperto montatore di gru, impegnato a lavorare in uno stabilimento sovietico della Fiat. Forse reminiscenza dell’esperienza di lavoro che Levi aveva fatto a Togliattigrad, nel sito produttivo Fiat per la fabbricazione della Zugulì, nato nel 1966 da un accordo tra Italia e Russia
Primo Levi, partigiano e sopravvissuto ai campi di concentramento, già autore del celebre “Se questo è un uomo”, sin dagli anni sessanta progettava di scrivere un libro sul mondo del lavoro. La cellula staminale di questo progetto, composto da quattordici episodi che parlano dell’operaio specializzato Faussone, si evolve un anno prima della pubblicazione, nel 1977, nel racconto “Meditato con malizia” (il primo nel libro) che appare sulle colonne de “La Stampa”.
Lo stesso titolo suggerisce l’idea di un romanzo del lavoro, “per il lavoro”. E, di fatto, sull’esperienza lavorativa di Tino si regge l’intera ossatura che trova nutrimento anche dal fatto che l’interprete è un lavoratore “vero” che guarda al futuro positivamente, nonostante la durezza del lavoro, e lo fa con i suoi attrezzi, con il suo ingegno, la sua manualità, l’esperienza maturata in ogni luogo ove la sua opera di lavoratore è richiesta: dall'Africa alla Russia, dall'Alaska al sub continente indiano. “L'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”.
Nei racconti di Levi/Faussone si celebra il lavoro manuale, lo si celebra attraverso la fatica, la gergalità operaia di un certo Piemonte, fatta di dialetto e tecnicismi da saldatore e tornitore, in un racconto che a tratti assume le dinamiche tipiche della narrazione orale. Quel modo colloquiale di trasferire, magari al tavolo di una mensa aziendale, le proprie esperienze fatte di sudore, ma anche della soddisfazione per aver creato, costruito, montato qualcosa di vero, solido, concreto, utile. C’è, tra le righe de “La chiave a stella”, anche un valore antropologico che celebra l’uomo nella sua evoluzione di essere vivente in grado di creare con le proprie mani, di trasformare il movimento delle cinque dita in un utensile in una sorta di mistica della creazione.
Quindi, cooprotagonista, diventa il lavoro stesso, offerto come la rivincita dell’individuo capace di portare la propria capacità di lavorare al di fuori del recinto fisico e ideologico della fabbrica, fuori dai confini e dagli orizzonti tipici della narrativa degli anni ’70 (Elio Vittorini e Ottiero Ottieri), percorsa da contestazioni sociali ed elettrizzata dal boom dove la messa a fuoco puntava ad evidenziare il lavoro alienante della catena e del cottimo. Sono del periodo anche i film “Trevico-Torino - Viaggio nel Fiat-Nam”, uscito nel 1973 diretto da Ettore Scola, e il celebre “La classe operaia va in paradiso”, del 1971 per la regia di Elio Petri.
Il libro ha al suo attivo un premio Bergamo e uno Strega. Nella sua edizione d’esordio, quella per i tipi della Einaudi Supercoralli, l’opera di Levi riporta in quarta di copertina una presentazione anonima, ma che negli anni a seguire è stata attribuita a Italo Calvino. Pur non essendo presente nell’edizione che mi è passata tra le mani (stampa del 1980 in edizione Euroclub con l’aggiunta di quattro racconti tratti dal “Sistema periodico”), ho ritenuto che riportarla a seguire fosse un degno completamento a queste mie due righe di commento alla lettura.
Quarta di copertina, risvolto. Prima edizione 1978 Einaudi. Presentazione (anonima) di Italo Calvino
«Un gran numero d'italiani in questi anni passa periodi più o meno lunghi in paesi lontani ed esotici per lavori tecnici condotti da nostre imprese. Un tipo d'esperienza nuovo che entra nella nostra narrativa.
La chiave a stella racconta le avventure d'un montatore di gru, strutture metalliche, ponti sospesi, impianti petroliferi: un tecnico di grande perizia, tanto da essere chiamato a realizzare progetti difficilissimi in tutti i continenti, un operaio superspecializzato che passa !a sua vita tra contratti e trasferte internazionali come un grande direttore d'orchestra e II cui lavoro si svolge tra fiumi indiani in piena, ghiacci dell'Alaska, foreste africane, tundre russe. Personaggio che solo Primo Levi poteva rappresentare fino in fondo nei suoi due aspetti principali: quello dell'appassionata competenza professionale per cui ogni avventura è anche la storia d'una "performance" tecnica, una battaglia (vinta o persa) con i materiali e con le condizioni d'ambiente; e quello della vita picaresca del giramondo, del piglio divertito e ironico nell'affrontare ogni avventura cosmopolita già pregustando il piacere di raccontarla ai compaesani, di trasformarla in dialetto e in gergo.
Perché è sempre la sua voce che sentiamo in queste pagine; la voce del montatore Faussone, un piemontese il cui dialetto è fiorito da un repertorio inesauribile d'Invenzioni gergali, di metafore professionali, che Primo Levi registra e trascrive italianizzandole quei tanto che basta. Una doppia passione per il lavoro esatto e il linguaggio colorito anima il libro: per cui la tecnologia più ardita e la disinvoltura a muoversi nel mondo ci arrivano attraverso la voce scanzonata e riduttiva di questo personaggio dalle radici locali ben tenaci, che non si tira mai indietro di fronte al nuovo e all'insolito ma filtra ogni esperienza al lume del suo buon senso popolare e tradizionale (dietro di lui c'è una Torino vecchiotta e cerimoniosa di cui Levi ci dà uno scorcio con la visita alle zie; ma anche una dinastia d'operai-artigiani scesi dalla campagna in città seguendo le ondate della nostra rivoluzione Industriale). Eppure questo Faussone chiacchierone e ingegnoso è pure un uomo che persegue un ideale con un rigore ossessivo, uno stilista d'una morale netta e metallica, un abitante dell'aria, su per i tralicci che va facendo crescere e controllando con la sua "chiave a stella"; sempre pronto a godere i piaceri del mondo di quaggiù ma solo dopo essersi assicurato che i cavi reggano la tensione dei carichi.
Primo Levi che con Il sistema periodico ci aveva già dato un libro esemplare, oltre che raro nella nostra letteratura, sulla formazione morale d'un uomo della nostra epoca, ora propone in questo nuovo libro un'immagine (felicemente "inattuale" rispetto agli umori dei tempi) di quella quasi ignota civiltà della competenza che pure esiste in Italia, ed in cui rivive l'antica nobiltà dell'artigiano che fa le cose con le proprie mani. E l'"allegro" del suo raccontare è quello che conosciamo fin dalle peregrinazioni della Tregua, picaresche anche quelle, se pur su uno scenario tragicamente devastato.
Nel libro entra di persona anche lui, il chimico Primo Levi, a dialogare col concittadino Faussone incontrato in contrade remote, e a confrontare quelle del montatore di gru con le esperienze sue, delle sue due professioni: di "montatore di molecole" e di "montatore di racconti"». ( )
  Sagitta61 | Apr 30, 2023 |
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