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Schalansky, Judith (2000). Atlante delle isole remote: Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò (trad. Francesca Gabelli). Milano: Bompiani. 2013. ISBN 9788858763575. Pagine 144. 9,99 €

Per quanto ne so io (che, lo ammetto, non è moltissimo) nessuno si è mai chiesto se le Petites Madeleines che, nel primo capitolo del primo volume della Recherche di Proust, riportano il narratore alla sua infanzia di Combray fossero fresche o stantie, sufficientemente burrose o un po’ secche, se rispettassero la ricetta originale formulata a Commercy da Madeleine Paulmier o se fossero corrotte dalla vaniglia o dalle nocciole (qualcuno si è chiesto, tuttavia, se l’episodio narrato fosse reale o un’invenzione letteraria, concludendo che l’evento era realmente accaduto nei primi mesi del 1909). Nessuno se l’è chiesto perché evidentemente irrilevante per godersi il romanzo e, soprattutto, per coglierne la poetica (e la poesia):

Già da parecchi anni, di Combray, tutto ciò che non era il teatro e il dramma del mio andare a letto, non esisteva più per me, quando, un giorno d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati Petites Madeleines, che sembrano modellati nella valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un triste domani, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè dove avevo lasciato ammorbidire un pezzetto di madeleine. Ma, nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde mi era potuta venire questa gioia potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?
[…]
E ricomincio a domandarmi quale potesse essere questa condizione ignota, che non portava alcuna prova logica, ma soltanto l’evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale le altre svanivano. Voglio tentare di farla riapparire. Vado indietro col pensiero al momento in cui ho preso il primo cucchiaino di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce. Chiedo al mio spirito uno sforzo ulteriore, di richiamare ancora una volta la sensazione che sfugge.
[…]
E, all’improvviso, il ricordo mi è apparso. Quel sapore era lo stesso del pezzetto di madeleine che, la domenica mattina, a Combray (perché quel giorno non uscivo prima dell’ora della messa), quando andavo a darle il buongiorno nella sua camera, la zia Léonie mi offriva, dopo averlo immerso nel suo infuso di tè o di tiglio. L’aspetto della piccola madeleine non mi aveva ricordato nulla, prima che ne sentissi il sapore; forse perché, avendone spesso viste in seguito, senza mangiarne, sui ripiani dei pasticcieri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per legarsi ad altri più recenti; forse perché, di quei ricordi per così lungo tempo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato; le forme — e anche quella della piccola conchiglia di pasticceria, così grassamente sensuale, sotto la sua pieghettatura severa e devota — si erano dileguate, oppure, assopite, avevano perduto la forza d’espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza. Ma, quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo.
E appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di madeleine, inzuppato nel tiglio, che mi dava la zia (benché non sapessi ancora, e dovessi rimandare a molto più tardi la scoperta del motivo per cui quel ricordo mi rendesse tanto felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, dove era la sua camera, si adattò, come uno scenario di teatro, al piccolo padiglione che dava sul giardino, costruito sul retro per i miei genitori (quel lato tronco che solo avevo rivisto fin allora); e con la casa, la città, da mattina a sera, e con qualsiasi tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove andavo a far delle compere, i sentieri in cui ci si inoltrava se il tempo era bello. E come in quel gioco, che piace ai Giapponesi, che consiste nell’immergere in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fino allora indistinti che, appena bagnati si distendono, si rigirano, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili; così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole case e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto questo che sta prendendo forma e solidità, è emerso, città e giardini, dalla mia tazza di tè. [Marcel Proust. Alla ricerca del tempo perduto. L'edizione è quella Newton-Compton e la traduzione di questo brano è di Paolo Pinto. Posizioni Kindle 2590-2641]

Anche di questo libro di Judith Schalansky non importa poi molto dire se sia bello o brutto. L’importante è che abbia svolto per me il compito di smuovere i ricordi. Da bambino ero molto curioso, di una curiosità “scientifica” e non “relazionale” (potrei anche dire che le cose, le idee, le teorie mi interessavano più delle persone, se questo non rischiasse di farmi apparire più Asperger di quello che già sembro). Appassionato dei romanzi di Jules Verne, avevo cercato a lungo di capire se l’Isola misteriosa esistesse e dove fosse. Non mi potevo rassegnare all’idea che fosse un’invenzione: in fin dei conti avevo già capito che Verne mescolava abilmente circostanze reali e invenzioni fantastiche. Se fossi stato al suo posto – mi dicevo (lo vedete che non sono poi così Asperger: so mettermi nei panni degli altri) – avrei preso un’isola vera, magari poco conosciuta, e ci avrei ricamato sopra. Non è che nel Pacifico le isole manchino, mi dicevo.


wikimedia.org/wikipedia/commons
I miei avevano un atlante meraviglioso, l’Atlante internazionale del Touring Club Italiano (penso l’edizione del sessantennio, del 1956): formato 50 per 60, legatura in pelle e dorso in acciaio, con le carte inserite in un blocco ad anelli. Mi emoziono ancora a pensarci e a rivedermi, a pancia sotto, cercare all’incrocio tra il 34° parallelo S e il 150° meridiano W l’isola misteriosa.

Mai trovata, naturalmente. Anche se, a volte, e a patto di stiracchiare le coordinate geografiche, qualche candidato riuscivo a trovarlo. E poi, nelle ultime pagine del romanzo l’isola veniva distrutta da un’eruzione vulcanica e rimaneva soltanto un minuscolo scoglio (un po’ come la cometa ISON). Molti anni dopo trovai (o, meglio, non trovai) l’Isola non trovata di Guccini-Gozzano. Ma è un’altra storia.


Guido Gozzano. La più bella. 1913
I.
Ma bella più di tutte l’Isola Non-Trovata:
quella che il Re di Spagna s’ebbe da suo cugino
il Re di Portogallo con firma sugellata
e bulla del Pontefice in gotico latino.

L’Infante fece vela pel regno favoloso,
vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Hera
e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso
quell’isola cercando… Ma l’isola non c’era.

Invano le galee panciute a vele tonde,
le caravelle invano armarono la prora:
con pace del Pontefice l’isola si nasconde,
e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.

II.
L’isola esiste. Appare talora di lontano
tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero:
“…l’Isola Non-Trovata!” Il buon Canarïano
dal Picco alto di Teyde l’addita al forestiero.

La segnano le carte antiche dei corsari.
…Hifola da – trovarfi? …Hifola pellegrina?…
È l’isola fatata che scivola sui mari;
talora i naviganti la vedono vicina…

Radono con le prore quella beata riva:
tra fiori mai veduti svettano palme somme,
odora la divina foresta spessa e viva,
lacrima il cardamomo, trasudano le gomme…

S’annuncia col profumo, come una cortigiana,
l’Isola Non-Trovata… Ma, se il pilota avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dell’azzurro color di lontananza…

* * *

Ho divagato abbastanza. L’Atlante delle isole remote parla di isole reali, che sulle carte si trovano. Ma sono isole a loro modo favolose, per le storie che vi sono collegate. Alcune le conoscevo già: della Pitcairn dell’Ammutinamento del Bounty parla anche Jared Diamond in Collapse, dove si parla anche del collasso ecologico dell’Isola di Pasqua. Di Pingelap si parla ampiamente (è, come dire, la title track) in L’isola dei senza colore di Oliver Sacks. Di ognuna delle 50 isole, raggruppate per oceano di apparteneza, Judith Schalansky presenta una breve scheda (nome e coordinate, superficie e numero di abitanti, data di scoperta, distanza da altre isole e dalla terraferma, collocazione sul planisfero), una storia in genere di una pagina e una bella mappa. Per questi dettagli iconografici, molto curati, sospetto che l’edizione cartacea sia in questo caso preferibile a quella digitale. Un buon terzo del libro (almeno se si fa riferimento alle posizioni di Kindle) è occupato dal glossario e dall’indice (che non è nemmeno hyperlinked): molto irritante, e fa pensare che l’editore, almeno quello italiano, abbia teso a tirare una fregatura al lettore …

* * *

I testi minimalisti di Judith Schalansky sono però molto gradevoli. Vi riporto un esempio, riferito all’isola di Rapa Iti, nella Polinesia francese:

In una piccola città situata nelle propaggini dei Vosgi, un bambino di sei anni è tormentato da un sogno ricorrente nel quale qualcuno gli insegna una lingua completamente sconosciuta. Ben presto il piccolo Marc Liblin non la parla più fluentemente soltanto in sogno, pur senza sapere da dove venga o se esista davvero. // Marc è un bambino solo, molto dotato e assetato di sapere. Da adolescente divora più libri che pane. All’età di trentatré anni vive appartato dal mondo, in Bretagna. Qui, alcuni ricercatori dell’Università di Rennes lo notano, vogliono decifrare la lingua dei suoi sogni e tradurla. Per due anni alimentano i loro enormi calcolatori con gli strani suoni di Marc. Inutilmente. // Un giorno, i ricercatori hanno l’idea di andare per i bar del porto a chiedere ai marinai in libera uscita se qualcuno di loro abbia già sentito quella lingua da qualche parte. In un’osteria di Rennes, Marc Liblin si esibisce in un assolo, monologando davanti a un gruppo di tunisini. A un certo punto l’uomo dietro il banco, un ex appartenente alla marina, si intromette e dichiara che ha già sentito una volta questa parlata, sulla più solitaria di tutte le isole della Polinesia. E conosce un’anziana signora, la moglie divorziata di un militare, che abita in una casa popolare di periferia e che parla proprio in quel modo. // L’incontro con la signora polinesiana cambia la vita di Liblin: Meretuini Make apre la porta, Marc la saluta nella sua lingua e lei risponde subito nell’antico Rapa della sua terra. // Marc Liblin, che non ha mai lasciato l’Europa, sposa la sola donna che lo capisce e nel 1983 parte con lei per l’isola dove si parla la sua lingua. [posizione Kindle 737]

* * *

Soltanto un’altra citazione, che mi è sembrata particolarmente profonda:

Le rivoluzioni sono proclamate sulle navi, le utopie sono vissute sulle isole. [514]
… (mere)
 
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Boris.Limpopo | Apr 29, 2019 |

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